Video integrale della conferenza
Le costituzioni negli ultimi duecento anni sono state il prodotto più “alto” di quelle formazioni sociali chiamate Stati. Abbandonato l’universalismo che si propugnava alle origini del costituzionalismo moderno, la dimensione statale ha rappresentato il perimetro entro cui si sono pensate e, poi, fatte valere le garanzie dei diritti costituzionali. La concreta macchina costituzionale entra in gioco, da un lato, per assorbire il potere costituente, potere “terribile”, posto alla base dell’ordinamento ma sempre eccedente i suoi confini istituzionali; dall’altro, per sostituire alla processualità aperta dal momento costituente uno stabile quadro di tutele e di garanzie. Guardando al presente, si potrebbe ipotizzare che i processi di globalizzazione abbiano ormai privato le costituzioni del loro presupposto: lo Stato. Nei tempi recenti prevalgono, in effetti, i discorsi sul dominio, non più delle costituzioni intese come “leggi supreme”, bensì dei mercati globali, dei gruppi sociali diffusi entro l’intero pianeta. In molti si dedicano alla ricerca di una nuova dimensione − non più statale, ma sociale − delle costituzioni. A essere messa in discussione non è una delle particolari declinazioni del concetto moderno di costituzione − intesa, alternativamente, come grande decisione, complesso di principi e valori sovraordinati o norma fondamentale − ma la costituzione sans phrase. Tuttavia, una costituzione senza Stato, forse anche senza politica, rimessa esclusivamente alle determinazioni della società nei suoi diversi segmenti (s’è parlato di costituzioni settoriali) quale ruolo svolge? Può porsi ancora come limite ai poteri e garanzia dei diritti ovvero si deve limitare a descrivere le emergenze spontanee dei diversi segmenti che vanno a comporre le nostre società globali?